martedì 11 febbraio 2014

Qual è la casa?

di Mattia Sangiuliano
Una delle principali cause di perplessità in cui ci si imbatte, quasi ad ogni passo, nel considerare le cose d'Italia, (tutte le volte, cioè, che si tenta di sbrogliare una matassa politica specialmente aggrovigliata o di veder chiaro nell'esito di un inesplicabile fatto d'arme), è l’assurda discrepanza tra l’eccellenza di gran parte degli italiani singoli e il destino generalmente sciagurato del loro paese attraverso i secoli.

Luigi Barzini (junior), Gli italiani, 1965

Lavoratore italiano in una miniera nei pressi di Duisburg 

(foto Bundesarchiv)
In questi mesi trascorsi in Germania ho avuto modo di conoscere un'infinità di realtà, di persone, di intessere una vastissima rete di rapporti con gli altri. Ma soprattutto di osservare.

Colpisce, innanzitutto, il numero spropositato di ragazzi tedeschi che studiano italiano.
È stato sorprendente poter vedere con che passione questi giovani studenti si dedicano anima e corpo nello studio della lingua e nell'apprendere la cultura italiana.

Esistono però differenze fra studente e studente. Vissuti personali, intimi, si intrecciano a motivazioni che, come una componente propulsiva, spingono avanti questi giovani.
Spesso una passione maturata durante le scuole superiori li avvia allo studio della lingua; oltre a inglese e francese non è infatti raro che gli studenti del Gymnasium studino l'italiano; un po' come avviene anche in Italia, in molti licei, con la lingua tedesca.
Altri incominciano a studiare italiano all'università per curiosità, anche se non si tratta di una materia curricolare; altri ancora decidono di studiare proprio questa lingua magari specializzandosi nello studio delle lingue romanze in generale o proprio in quello dell'italianistica, così come fanno specularmente gli studenti italiani di una facoltà di lingue che studiano "Germanistik".

Un altro gruppo di studenti che sceglie di studiare italiano in un'università tedesca, lo fa perché possiede una doppia identità.
Questo numeroso gruppo di studenti tedeschi sente di appartenere ad una doppia cittadinanza, non una vera doppia cittadinanza tedesca e metonimicamente europea, bensì si sentono come il frutto di un ponte gettato tra la cultura tedesca e quella italiana.

Sono figli di emigrati italiani, uomini e donne che sono partiti decenni fa per trovare lavoro e migliori condizioni di vita fuori dalla loro Italia. I loro figli sono nati tedeschi, ma per lo ius sanguinis sono, giuridicamente, a tutti gli effetti italiani.
Hanno vissuto in Germania con una famiglia italiana. Hanno imparato il tedesco frequentando la scuola in Germania, andandoci con altri studenti tedeschi, mescolandosi a loro. Con i loro compagni parlano e hanno parlato tedesco; anche con altri figli di italiani parlano e hanno parlato per lo più tedesco.

La prima generazione sente forte questo legame con la terra natia dei propri genitori, con la lingua, le usanze, gli oggetti e le abitudini che scandiscono la loro infanzia italiana in terra tedesca, divisa tra i costumi di una loro “non-patria” italiana e quella di una loro terra di adozione, che li alleva come veri e propri figli, offrendo lavoro ai genitori e un'istruzione a loro stessi.

Una piccola distanza attraversa le seconde generazioni. I nipoti degli emigranti italiani, ancora ragazzi e ragazze cresciuti immersi nel mondo tedesco, magari allevati da due genitori che parlano solamente tedesco nella ristretta cerchia domestica, in cui, il più delle volte, solo uno dei due può vantare origini italiane.
Sono i ragazzi, oggi, i cui nonni si sono spostati in Germania per trovare lavoro nelle fabbriche tedesche, magari dopo la guerra, attratti dalla possibilità che offriva la voglia di ricostruire una nazione martoriata dalla guerra e dall'esperienza del nazismo.

Anche loro, per passione o vocazione guidati dagli studi liceali, o, ancora, da piccoli oggetti, piccole storie, piccoli frammenti di abitudini familiari, percepiscono le proprie origini diverse da quelle dei loro compagni, dei loro amici o concittadini. Decidono di assecondare una loro curiosità una loro voce, intraprendendo così lo studio dell'italiano per approfondire un'identità il più delle volte duplice.

Esistono così, fondamentalmente, due difficoltà sotto il profilo linguistico e contemporaneamente due grandi differenze: da un lato ci sono gli studenti digiuni di italiano o perché vantanti un albero genealogico interamente tedesco o perché frutti troppo lontani dalle radici italiane della loro famiglia; dall'altro figli di emigrati recenti che hanno appreso l'uso dell'italiano dalla famiglia.

Da un lato studenti più o meno digiuni dell'italiano standard, dall'altro studenti che portano sulle spalle il peso della propria cultura italiana e, dunque, della cultura regionale, ivi inclusa la parlata dei propri genitori. Questi sono ragazzi che spesso parlano con i genitori usando la parlata regionale di provenienza; unica varietà linguistica, quella regionale, che sono riusciti ad apprendere dall'educazione familiare. Molti studenti, in questo caso specifico, devono prima liberare il campo dal regionalismo, sovente utilizzato come unico italiano, per adottare lo standard che viene insegnato nelle scuole tedesche, magari grazie al sostegno di lettori e lettrici madrelingua italiani.

Italiani emigrati in Germania, ad un corso di formazione professionale 
(foto Bundesarchiv)
Ecco allora che entra in scena un'altra figura, quella di professori di italiano che padroneggiano
perfettamente due lingue, l'italiano materno e il tedesco che hanno appreso. Uomini e donne, lettori e lettrici, che a seconda dell'offerta formativa dell'università offrono corsi in lingua, dalla sintassi, alla grammatica italiana, sino all'ostico corso di “pronuncia e intonazione” passando per vari corsi che hanno come obiettivo l'adozione della padronanza dello stile nella scrittura, analizzando anche testi di attualità o di letteratura.
Tutti corsi in lingua tenuti da docenti, alcuni dei quali estremamente giovani, giunti in Germania in quantità impressionante nell'ultimo decennio, rimarcando quella cicatrice così cocentemente recente che va sotto il nome di "fuga di cervelli", la forma di spostamento migratorio che colpisce in maniera impressionante l'Italia privandola di un esercito di uomini e donne estremamente preparati e dotati, fuggiti dall'Italia in cerca di una migliore condizione di vita o, in molte circostanze, per veder riconosciuto un merito che in Italia non sarebbe sufficiente a garantire di ricoprire un ruolo dignitoso. La ricerca di una migliore condizione spinge questi italiani laureati e meritevoli fuori dai confini patrii.

Oltre alla lingua, materia di studio prima, c'è infine il peso della cultura italiana, insegnata nelle scuole e nelle aule facendo toccare con mano ai ragazzi tedeschi la storia e l'attualità, mostrando quella cultura che sembra quasi impossibile da spiegare a ragazzi che vivono così lontani da un paese che sentono nonostante tutto così vicino a loro; una realtà così a portata di mano eppure così evanescente, così complicata, contraddittoria e, spesso, grazie ai racconti che giungono loro, così incapace di cambiare e cambiarsi; il confermarsi di quel nefasto assunto riassumibile nel pensiero che Italo Calvino espresse già nel 1957 ne Il barone rampante: “Viviamo in un paese dove si verificano sempre le cause e non gli effetti”.
Forse perché gli effetti si cerca di non vederli.
Si sente il peso di una cultura che, quando viene raccontata, spiegata, calata nella quotidianità raccontando i fatti di cronaca, gli intrecci così atipici e dannosi, tra malavita e potere, tra carenza di meritocrazia e connivenza con il proprio male, tutto riassumibile in un diffuso mal costume, non fa empire i cuori e gli animi di tristezza, di un disperante senso di smarrimento che cerca, senza riuscire a raggiungerla, una spiegazione; viene mostrata una storia senza morale alla fine dei fatti, poiché ancora non si è giunti alla conclusione, e il dramma deriva dalla reiterazione dello stesso scenario, senza che si riesca a cambiarne la traiettoria.

È dunque questo quello che accomuna generazioni di ragazzi, uomini e donne, operai e docenti, una nostalgica tristezza verso un qualcosa da cui ci si è lontani ma da cui ci si sente attratti, spesso anche senza averlo mai potuto toccare con mano.
E il motivo per cui alla domanda “Vi sentite più italiani o tedeschi?” i ragazzi non possono che rimanere perplessi, appena interdetti, presi contro piede, per qualcosa che evidentemente si sono domandati in più occasioni, a cui non riescono a rispondere, ma che suscita in loro una profonde empatia per la sorte di quelle altre persone che sono fuggite da un paese che chiamavano casa. Alcuni di loro spesso pensano ai propri genitori, ai propri nonni.
Da quella domanda gli stessi docenti sono stati costretti a prendere una certa distanza emozionale, per riuscire porla come fatidico quesito ad un uditorio così eterogeneo per vissuti personali talmente differenti l'uno dall'altro ma dipendenti da un'unica passione comune, capace di stringere insieme generazioni di persone.

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